E Natascha adotta i figli dell'incesto

martedì 29 aprile 2008
La doppia faccia di Josef Fritzl, osannato dai vicini e orco tra le pareti domestiche

La Kampusch offre i soldi ricavati con le interviste per aiutare i piccoli reclusi nella casa-prigione di Amstetten


DAL NOSTRO INVIATO

AMSTETTEN (Austria) — La gabbietta degli uccellini si vede dal marciapiede della Dammstrasse. Svetta su un parapetto di legno corroso, sulle piante ben curate d'un terrazzo. Quando non gli toccava fare il bravo marito con la vecchia Rosemarie, o non era troppo indaffarato a fare il nonno buono coi tre figli-nipoti che aveva finto di prendere in affido, «quella disgraziata di mia figlia Elisabeth ce li ha mollati perché lei non può mantenerli!»; quando non si premurava di raccontare barzellette al bar o di radere l'erba o d'andare a pesca o di dare una mano ai vicini, «quant'è bravo ad aggiustare gli elettrodomestici! »; quando non spariva ore nello scantinato a lavorare, «guai a chi va lì dentro!», e in realtà apriva la botola segreta per dar da mangiare ai suoi schiavi; quando la sua doppia faccia non si doveva dividere fra la normalità e l'orrore, allora l'ingegnere Josef Fritzl aveva finalmente il tempo d'occuparsi anche di loro, gli uccellini, povere bestioline.

Dalla Dammstrasse lo vedevano tutti, lassù. A dare miglio e attenzione. A fare l'unica cosa che gli riusciva bene: accudire una gabbia. Josef ha impiegato una vita a ingannare tutti e un giorno solo a confessare tutto. Sì, ha rapito sua figlia. L'ha segregata 24 anni. Ha avuto sette figli-nipoti da lei e uno, neonato e morto, l'ha bruciato nella caldaia. Tre se li è cresciuti al piano di sopra come se niente fosse, assieme alla moglie-moglie Rosemarie. Gli altri li ha sepolti vivi là sotto, con la moglie-figlia Elisabeth... Tutto vero. Peggio del vero.

A capirlo subito è Natascha Kampusch, che si liberò da otto anni di prigionia simile e ora offre i soldi guadagnati con le interviste: «Voglio aiutare questa famiglia». A capirlo bene sono i giornali: «Dopo Natascha ed Elisabeth - scrive Der Standard -, l'Austria deve chiedersi che cosa sta corrodendo questa società ricca e appagata». A capirlo pian piano sono i poliziotti che per una volta violano le regole e pubblicano nome e foto dell'indagato, perché stavolta «la gente deve aiutarci — dice Franz Prucher, ispettore capo —, guardare bene quest'uomo: per esempio, c'è qualcuno che l'abbia mai visto comprare vasetti d'omogeneizzati o vestiti per bambini?».

Ancora qualche dubbio. Sui vicini che cascano dal pero. Sugli assistenti sociali che inciampano nell'affido. Su Rosemarie, ignara del marito e dei suoi stupri, degli schiavi, degl'incesti. «Il caso è chiuso», dice però la polizia. E l'esame del Dna, solo una formalità. «Tutto chiaro»: Elisabeth sparisce nell'agosto 1984, ma il piano della cantina è di due anni prima, quando lei stanca di violenze scappa di casa per qualche giorno. Josef la minaccia, la ragazza torna ma diciottenne, barista in un autogrill, se ne rivà. È lì che il padre passa all'azione: lascia che la fuggiasca rincasi e due settimane dopo è lui, con la moglie, a denunciare costernato l'ennesima fuga. Elisabeth è già drogata e ammanettata in cantina, ma l'Interpol la cerca per mezza Europa. Josef va perfino all'autogrill, ad accusare i responsabili d'avere mobbizzato la ragazza.

«Folle ma solido», dice la psichiatra forense Sigrun Rossmanith, l'uomo ha deciso di crescere la figlia ribelle come una schiava del sesso, «un animale da punire soddisfacendo intanto bisogni animaleschi», e prepara una versione che reggerà un quarto di secolo: Elisabeth che scrive lettere perché nessuno la cerchi più, che lascia i figli davanti a casa, lui che da brav'uomo li manterrà... Incredibile, eppur credibile.

Incredibile come questa prigione di 60 metri quadri, che sembra copiata pari pari dal loculo di Natascha. La porta di cemento armato che sbarra la botola, nascosta dietro una falsa parete dello scantinato e telecomandata da un codice elettronico che solo Josef conosceva. Un corridoio stretto, cinque metri per arrivare a due stanzette con due letti ciascuna, un metro e 70 d'altezza, niente finestre, un malandato angolo cottura, un cesso con lavandino e doccia. Le pareti imbottite, insonorizzate. Un impianto di ventilazione. Qualche poster, un elefantino di gomma. Stelle colorate e disegni di bambini su piastrelle bianche e sozze.

Gli schiavi avevano solo una radiolina, un videoregistratore, una tv. Proprio la tv, li ha salvati: quando Elisabeth ha sentito che la stavano cercando, che sua figlia Kerstin era stata portata in ospedale moribonda e c'era bisogno della madre, non ha resistito e ha convinto il padre aguzzino a portarla là. Lui aveva pronta l'ennesima balla («mia figlia è tornata con i suoi ragazzi!»), ma nessuno dei medici c'è cascato. «La mia famiglia mi fa molta pena, adesso», ha detto Josef in manette. Gli fa pena, adesso che non ha più potere di vita e la pena è finita. Non c'è bisogno di spiegarlo al più piccolo degli schiavi, il bambino: a 5 anni, ha visto il sole ed è salito su una macchina. Felice.

Francesco Battistini

0 commenti: